Slowbalization: il mondo multipolare

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IN BREVE

  • Dopo decenni di globalizzazione, stiamo entrando in una nuova fase.
  • Ma più che di “deglobalizzazione”, oggi si parla di “slowbalization”.
  • Il nuovo contesto può aprire ulteriori opportunità di investimento.

Ascolta l'articolo (audio a cura di Fineconomy)

Il mondo profondamente interconnesso in cui viviamo oggi, frutto di decenni di integrazione economica, sta per cambiare per sempre. O almeno, così sembra. Negli ultimi 15 anni, è apparso sempre più chiaro che l’ordine mondiale sta assumendo un nuovo volto. Quale, è tutto da vedere. Da una decisa spinta verso la globalizzazione, infatti, si è passati a una de-globalizzazione che pare a volte imminente.

Con il tempo, però, ci si è resi conto che le cose non sono così semplici e che la dinamica in atto ha più i contorni di un rallentamento della globalizzazione (il Fondo Monetario Internazionale ha coniato in questo senso il termine “slowbalization”), se non addirittura di una nuova forma di globalizzazione (o “newbalization”).

Deglobalizzazione, slowbalization, newbalization: cosa sta succedendo?

Facciamo un piccolo passo indietro. A partire dal secondo dopoguerra, abbiamo assistito a una convinta tendenza verso la globalizzazione, con la crescita costante dei flussi internazionali di merci, servizi e capitali, ma anche di persone, conoscenze e informazioni. I rapporti tra i Paesi sono migliorati, la povertà su scala globale è diminuita e le differenze tra mondo sviluppato e mondo emergente si sono attenuate, grazie anche alla rapida evoluzione tecnologica, delle comunicazioni e dei trasporti, che ha “ridotto” le distanze geografiche.

Sembrava che questa tendenza verso un mondo sempre più interconnesso fosse destinata ad andare avanti incontrastata. Poi, però, qualcosa ha iniziato a incrinarsi.

Una tradizionale misura della globalizzazione reale è costituita dalla somma di importazioni ed esportazioni mondiali come quota del PIL. Come emerge dal grafico, questa misura ha continuato a salire fino al 2008, per poi raggiungere una sorta di “plateau” (anche se nel 2022 abbiamo assistito a un nuovo incremento, bisognerà vedere se solo momentaneo).

La fase che si è aperta dopo la crisi finanziaria globale – ribattezzata appunto “slowbalization” – è caratterizzata da due fattori:

• un prolungato rallentamento del ritmo delle riforme commerciali;
• un indebolimento del supporto politico all’apertura del commercio, di pari passo con l’aumento delle tensioni geopolitiche.

C’è anche chi, tra gli osservatori più attenti, nota come le esportazioni internazionali di servizi digitali siano in realtà in deciso aumento, in controtendenza rispetto ai prodotti più “tangibili”. Proprio in questo senso si parla anche di “newbalization” per descrivere l’idea secondo cui la natura stessa della globalizzazione sta cambiando, concentrandosi più sugli asset “immateriali”.

Dalla vecchia globalizzazione alla nuova: come siamo arrivati fin qui?

Dopo la crisi finanziaria del 2008, diversi fattori hanno contribuito al cambio di passo.

• Sul fronte economico, l’aumento del potere d’acquisto nei Paesi emergenti ha smorzato l’effetto dell’accesso a manodopera a buon mercato che aveva avuto un peso nella corsa alla globalizzazione a partire dagli anni Novanta.
• Inoltre, l’introduzione di nuovi dazi e una crescente attenzione alla sicurezza nazionale nel commercio di soluzioni tech – pensiamo in particolare ai rapporti tra Stati Uniti e Cina – hanno iniziato a influire, rallentandola, sulla globalizzazione.
• Poi ci si è messa pure la pandemia di Covid, che ha evidenziato le fragilità delle catene di approvvigionamento su lunghe distanze e il rischio di un’eccessiva interdipendenza economica.
• Infine, sono arrivati i conflitti geopolitici – dalla situazione ucraina alla riesplosione della polveriera mediorientale – che hanno rimesso in discussione il principio della convivenza pacifica tra Paesi.

Abbiamo assistito così a una virata in chiave protezionistica: dall’Europa agli USA fino alla Cina, tutte le maggiori potenze mondiali stanno ritarando le proprie politiche commerciali in chiave restrittiva, cercando di accorciare le catene di approvvigionamento e di rendersi il più possibile “indipendenti”: basta guardare alla moltiplicazione, negli ultimi anni, delle restrizioni commerciali imposte dalle normative per rendersene conto.

Nelle presentazioni aziendali si è iniziato a parlare di rilocalizzare le grandi imprese entro i confini nazionali (“backshoring”) o in Paesi vicini (“nearshoring”) o di limitare i network produttivi a Paesi “politicamente affini” (“friendshoring”).

Le prossime tappe della globalizzazione: cosa aspettarsi per il futuro?

Lo abbiamo capito, l’ordine mondiale sta cambiando. Ma questo non significa tornare necessariamente a un'era pre-Guerra Fredda, e non implica neanche che i rapporti tra USA e Cina debbano sfociare inevitabilmente in un conflitto. Anche perché rinchiudersi all’interno dei confini nazionali non è solo costoso: a questo punto sarebbe probabilmente impossibile. Un esempio su tutti: le materie prime critiche – come il litio, il silicio e il cobalto, necessari per la produzione di batterie elettriche, panelli solari e pale eoliche – non si trovano ovunque e sono particolarmente scarse nel mondo occidentale. Già questo fatto costituisce un ostacolo alla costruzione di catene di produzione geograficamente più vicine o collocate in Paesi politicamente affini.

“Quello a cui stiamo assistendo è piuttosto un naturale – e anche auspicabile – ritracciamento dalla iperglobalizzazione che ha caratterizzato gli ultimi decenni”, ha commentato Dani Rodrik, professore della Harvard Kennedy School of Government. “Il mondo sta attualmente cercando di trovare la giusta via di mezzo tra una globalizzazione eccessiva e una pericolosa autarchia”.

Lo scenario più probabile sembra dunque quello della “slowbalization”, con l’interconnessione che cresce ma più lentamente di prima e, almeno stando agli analisti di Goldman Sachs, l’inflazione e i tassi d’interesse su livelli più alti rispetto al periodo pre-pandemico, per effetto di una ridotta competizione sulle importazioni che favorirà un aumento dei prezzi.

La storia è in continuo movimento e così anche la globalizzazione

Va detto, tuttavia, che quella in cui ci troviamo oggi è una fase come tante ce ne sono già state in passato: se allarghiamo il nostro periodo di osservazione a un secolo e mezzo di storia, infatti, scopriremo che questa non è la prima volta che la globalizzazione subisce una battuta d’arresto.

Come evidenzia un recente studio del Fondo Monetario Internazionale1, nel periodo tra le due guerre – per la precisione, fra il 1914 e il 1945 – si sono registrati un deciso aumento del protezionismo e una regionalizzazione del commercio, con una caduta degli scambi internazionali (a seguito della Grande Depressione del 1929) che ha portato, a partire dal 1931, alla sospensione del Gold Standard.

Dal punto di vista di chi investe, se guardiamo all’andamento dell’indice azionario S&P 500 nel tempo scopriremo che non ci sono guerre, crisi finanziarie o fasi di deglobalizzazione che, sul lungo periodo, non consentano una piena ripresa. E con gli interessi, anche. Come a dire: noi potremmo anche faticare ad accogliere novità e cambiamenti, ma i mercati si adeguano piuttosto in fretta, non mancando mai di offrire nuove opportunità. Che richiedono attenzione al lungo termine e uno sguardo sempre molto lucido.

Meglio quindi rimanere fedeli agli obiettivi di lungo termine cercando piuttosto, nel frattempo, di cogliere le opportunità che inevitabilmente ogni cambiamento porta con sé.


1https://www.imf.org/en/Blogs/Articles/2023/02/08/charting-globalizations-turn-to-slowbalization-after-global-financial-crisis

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